La Corte di Cassazione ha confermato la sentenza che aveva ritenuto un medico responsabile della morte di un settantasettenne dimesso dal Pronto Soccorso senza disporre i necessari accertamenti cardiologici che, ove fossero stati tempestivamente eseguiti, avrebbero consentito di diagnosticare la sindrome coronarica acuta a causa della quale il giorno successivo egli era giunto in altro ospedale in condizioni gravissime, decedendo immediatamente dopo il ricovero.
Il medico, C.G., si era difeso evidenziando che il signor Ca.Ro., al momento del ricovero al pronto soccorso, lamentava soltanto dolori addominali, aveva valori normali di pressione ed anche gli esami del sangue davano risultati normali, ad eccezione della glicemia e dell’emocromo che, però, non sono sintomatici di un problema cardiologico; egli era stato pertanto sottoposto ad una radiografia all’addome ed era stata effettuata una consulenza cardiologica, all’esito della quale entrambi i medici avevano concordato sulla diagnosi di coliche addominali.
La difesa si era appellata quindi al principio civilistico, art. 2236 cc, secondo cui il medico risponde solo per colpa grave sottolineando come l’imputato avesse le capacità di riconoscere una epigastralgia, da lui più volte in passato diagnosticata, ove se ne fossero presentati i sintomi che, al momento, erano inesistenti; secondo la difesa, inoltre, il medico non aveva tenuto alcun comportamento colpevole avendo anche chiesto una consulenza chirurgica da parte di un collega che aveva convalidato il suo operato. Si era richiamato il tema di accertamento del nesso di causalità e sottolineato che il Ca. si era sentito male 13 ore dopo essersi allontanato dall’ospedale (omissis) e che l’infarto era insorto solo alcune ore prima dell’accesso al secondo ospedale.
La Corte di Cassazione ha invece confermato il giudicato della Corte di appello di Palermo, che aveva ravvisato sia la sussistenza del nesso di causalità che quella della colpa medica.
E’ stato messo in luce come la condotta tenuta dal medico si sia sostanziata in una “macro” omissione circa la necessità di procedere ad una più approfondita valutazione dell’apparato cardiovascolare mediante l’esecuzione di esami elettrocardiografici e di controlli enzimatici ripetuti da effettuarsi nell’ambito del ricovero del paziente che, per le condizioni in cui si trovava (età di 77 anni, ipertensione, ipoglicemia), avrebbe dovuto essere tenuto in osservazione per almeno 24 ore con esecuzioni di esame elettrocardiografico e di controlli degli enzimi di necrosi cardiaca ogni 6 ore; anche il dolore addominale lamentato dal paziente da alcuni giorni doveva far sorgere il sospetto di una possibile patologia coronarica, sia pure manifestatasi in forma atipica, tanto più che gli esami ematochimici eseguiti, l’esame obiettivo addominale, l’alvo aperto a feci e gas e l’esame radiografico addominale consentivano già di escludere una patologia addominale. La corte di appello ha ritenuto tale comportamento gravemente colposo.
La necessità di tenere in osservazione il paziente che manifesti sintomi di possibile patologia cardiaca, per un congruo intervallo di tempo (normalmente dalle 6 alle 12 h), verificando a intervalli regolari la presenza di enzimi indicatori delle necrosi miocardiche ed il cui esito è ottenibile a breve distanza dal prelievo, cioè la necessità di operare il cd. monitoraggio continuo del paziente, per poter intervenire tempestivamente con cardiologia interventistica, è regola di comportamento comunemente seguita nei pronto soccorso e che avrebbe dovuto seguire anche l’imputato.
Si sottolinea che, attualmente, la materia è disciplinata dall’art. 3 della legge 8 novembre 2012, n. 189 che esclude la rilevanza della colpa lieve per quelle condotte che abbiano osservato linee guida o pratiche terapeutiche mediche virtuose accreditate dalla comunità scientifica, come nella specie non è però avvenuto.
Quanto al nesso causale, la Corte palermitana, preso atto che la morte del paziente si era verificata per shock cardiogeno irreversibile, secondario ad infarto miocardico acuto complicato da grave aritmia cardiaca, ha osservato che doveva ritenersi una ipotesi lontana dalla realtà quella secondo cui la sindrome coronarica non fosse già presente al momento in cui l’imputato prese in carico il paziente tanto che il modello del movimento enzimatico rilevato all’arrivo del medesimo all’ospedale induceva a ritenere che la comparsa della necrosi del miocardio fosse da far retrocedere a alcune ore precedenti l’accesso in tale nosocomio.
Una condotta rispettosa delle norme tecniche e delle migliori prassi del caso, sarebbe stata idonea, sia pure sulla base di un percorso causale ipotetico, a evitare l’evento o a ritardarne significativamente la sopravvenienza.
Circa la sussistenza del nesso di causalità la Corte ha chiarito che la causalità omissiva è sostenuta non solo in presenza di leggi scientifiche universali o di leggi statistiche che esprimono un coefficiente prossimo alla certezza (ma che pur sempre impongono di accertare la irrilevanza di eventuali spiegazioni diverse eventualmente dedotte), ma può esserlo altresì quando ricorrano criteri medio bassi di probabilità cd. frequentista, non escludendo che “anch’essi, se corroborati dal positivo riscontro probatorio… circa la sicura non incidenza nel caso di specie di altri fattori interagenti in via alternativa, possano essere utilizzati per il riconoscimento giudiziale del necessario nesso di condizionamento”.
Distinguendo la mera probabilità statistica dalla probabilità logica, le Sezioni Unite hanno dunque messo l’accento, con valutazioni che il Collegio condivide, sulla causalità omissiva.
In tal caso la Corte di appello di Palermo ha infatti ritenuto, sulla base degli accertamenti tecnici compiuti nel processo, che una volta disposto, come necessario, il monitoraggio del paziente si sarebbe potuto intervenire tempestivamente sulla patologia e, scongiurando o contenendo i danni dell’ infarto, allungare la vita del paziente. La Corte non si è spinta a ritenere certa la sopravvivenza del C. ma esprime un giudizio che trova fondamento in una consolidata acquisizione della scienza medica, secondo cui le possibilità di superare o contenere i danni dell’infarto sono legate alla tempestività dell’intervento, tempestività che ben era sussistente in concreto se solo ci si fosse comportati secondo le linee guida.
La corte ha così rigettato il ricorso e condannato il medico al pagamento delle spese processuali.
(Corte di Cassazione, sez. IV Penale, sentenza 17 febbraio 2014 – 13 marzo 2015, n. 10972)